Ok, confesso: ho ucciso Babbo Natale! Ma posso dire a mia discolpa che è stato un incidente! Nessun omicidio preterintenzionale.
È che quest’anno pensavo di averla scampata. Era ormai passato il giorno dell’Immacolata, cioè il giorno durante il quale a casa mia, per tradizione, si addobba l’albero di Natale. Dopo l’8 dicembre sono stata impegnata per lavoro e non ho avuto modo di percepire gli umori di casa. Poi, appena sveglia di sabato mattina, ho trovato davanti all’ingresso della sala da pranzo la prima inconfutabile avvisaglia dell’arrivo delle festività: il cartone gigante con su scritto NATALE. Eccolo là, ho pensato.
La scusa del lavoro, però, mi ha permesso di sgattaiolare fuori di casa come se niente fosse. A metà mattinata è arrivato il messaggio di mio padre – un signore ultrasessantenne, re del bricolage fai da te – che diceva testualmente: “Io ho assemblato l’albero e ho messo le luci”. Era un’affermazione perentoria che, conoscendolo, stava a dire “Ora veditela tu, io ho fatto il mio, per volere di tua madre. Amen”. Ho immaginato la scena di lei che chiede gentilmente a mio padre di sistemare le luci con attenzione e precisione e ho riso da sola. E infatti, al mio rientro l’albero è in piedi, le luci accese, perfettamente in ordine e omogeneamente disposte. Passo con nonchalance accanto al nuovo componente della casa, facendo finta che lui non sia lì ad aspettarmi. In cucina, però, ad aspettarmi c’era lei: la mamma. Mi guarda sorridendo e strizzando l’occhio esordisce: “Ti tocca, lo sai”. Tento un misero sguardo di incomprensione, mugugno qualche sillaba stridula. Tutto assolutamente vano. Lei sa che ho capito che ha capito che so.
Insomma, come ogni anno, a me è toccata la parte della disposizione degli addobbi. Ora, non so da voi come funziona. A casa mia l’organizzazione è ad alti livelli, quasi dovessimo mettere su un complicato impianto di ingegneria. Studiamo strutture a norma di legge, chiediamo condoni e firmiamo anche il contratto per l’allaccio dell’acqua. Per prima cosa, non deve mancare il sottofondo musicale per creare l’atmosfera giusta, considerando che qui al sud, sabato, c’era il sole e la gente a mare. Quindi ho selezionato la playlist con un ossigenatissimo George Micheal quando cantava “Last Christmas” con i Wham!, subito seguito da Mariah Carey con “All I want for Christmas is You”.
Ad ogni modo, su queste dolci note mi sono messa all’opera. Munita di occhiali da vista – ché ormai da lontano non ci vedo – comincio a scartare tutti gli addobbi in vetro e ceramica collezionati durante gli anni.Le decorazioni dell’albero di Natale, in casa nostra, sono accuratamente selezionate: ognuna ha il suo posto ben preciso e deve risaltare al meglio. Quasi ogni anno, però, mentre le scartiamo, facciamo la conta di “quelle che non ce l’hanno fatta”, andate in frantumi perché sballottate a seguito della chiusura dell’albero. Mia madre è quella che generalmente più si dispiace: “Neeee”, dice guardando tristemente i cocci. Più il soggetto le piace, più si dispera per la perdita. Ah, perché ovviamente, abbiamo una graduatoria per le decorazioni. Dai, non mi dite che voi non ne sapete nulla. Al primo posto nella lista, tutte le decorazioni di alto livello, quelle che vanno messe ben in vista sulla parte centrale del pino natalizio perché fanno scena. Poi ci sono le altre, di media importanza, disposte meno frontalmente ma comunque in una zona di chiara visibilità, perché danno colore. E poi ci sono loro, le cosiddette “tappabuchi”: quelle palline e quei soggetti di poco conto, comprati numerosi anni prima e di conseguenza declassati perché considerati esteticamente meno in sintonia con il tutto, utili esclusivamente a riempire i laterali dell’albero, “ché tanto nessuno arriva fino dietro a guardare”.
L’albero, nel frattempo, è praticamente pronto. Mancano gli ultimi soggetti. L’occhio indagatore di mia madre scruta da lontano l’effetto e il risultato finale, mentre io salgo e scendo dalla scala. Ad un certo punto è successo: Babbo Natale, scartato per ultimo, è scivolato giù. BUM! Mille cocci in frantumi per terra – era un pezzo di medio valore ma pur sempre emblema del Natale – tra le lamentele di mia madre “Neeeeee” che sopraggiunge a monitorare gli ultimi attimi di vita del malcapitato. Mi aspetto un sermone di quattro giorni e tre notti, un rancoroso digiuno di parole lungo settimane, un ricatto culinario. Trattengo il respiro, ancora sulla scala. “Vabbè – mi fa lei, improvvisamente calmata – alla fine non sapevamo mai dove metterlo, pure fastidio ci dava. Al suo posto mettiamo un’oca di carta”.
Insomma, ho ucciso Babbo Natale.
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